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Crisi di Governo, Draghi si dimette ma Mattarella lo congela. Il commento di Marco Travaglio

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Mario Draghi

La crisi di governo provocata dalla decisione di Mario Draghi di dimettersi (il Presidente Mattarella ha respinto le dimissioni invitando il Premier a riferire in Parlamento) a seguito della decisione dei Senatori 5 Stelle di non partecipare al voto sul “decreto aiuti” cui era stata imposta la fiducia (al Senato il voto sulla fiducia non è disgiunto da quello sul provvedimento) merita un commento qualificato e quello di Marco Travaglio, direttore de “Il Fatto” ci appare il più appropriato e veritiero.

WHATEVER IT MOJITO
di Marco Travaglio
Ci voleva il Migliore dei Migliori per regalarci una farsa che nemmeno l’inesauribile repertorio comico della politica italiana aveva mai sfornato: il premier riceve la fiducia dalla maggioranza assoluta delle due Camere e corre a dimettersi frignando “non gioco più, me ne vado”. Si può capire il logorio nervoso di un ex banchiere abituato ad atterrare dall’alto su poltrone monocratiche per comandare da solo e catapultato alla guida di un governo di destra-centro-sinistra. Ma, siccome è noto che non si assembrano partiti opposti senza una sopraffina abilità di mediazione, chi non se la sente rifiuta. Invece Draghi accettò: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Peraltro di quel mal fu corresponsabile Mattarella, che diversamente da lui fa politica da 42 anni e il 2 febbraio 2021 impose un governo “senza formula politica” con “tutte le forze in Parlamento”: un governo di tutti (o quasi) che, come già quello di Monti, s’è rivelato ben presto il governo di nessuno.
La hybris di abolire le differenze soffocando la dialettica e lo scontro fra le idee, cioè di cancellare la politica spianando e riplasmando i partiti a immagine e somiglianza di Draghi era una pretesa tanto autoritaria quanto velleitaria. Infatti si è retta su continue lesioni costituzionali (Parlamento aggirato a suon di decreti e fiducie, cobelligeranza per procura in Ucraina ecc.), prove muscolari antidemocratiche (“O così o me ne vado”, “Io tiro dritto”, “Ne ho piene le tasche”, gné-gné). Ed è durata fin troppo. Poi, con l’approssimarsi delle elezioni, la politica – cioè il confronto-scontro fra idee e interessi diversi – s’è ripresa il suo posto. Anche per il montante malcontento popolare per il dolce far nulla di un governo paralizzato dai veti e dall’incapacità del premier di mediare e rispondere con prontezza alle crisi (dal Covid alla guerra alle auto-sanzioni). Ma anche dalla sua svogliata inerzia, divenuta rivalsa rancorosa dopo la mancata ascesa al Colle. Bastava prendere sul serio la sua autocandidatura natalizia per capire che Draghi cercava la fuga perché il progetto era fallito.
In primavera riprovò a sganciarsi col pretesto dei no delle destre su catasto e balneari, ma ormai c’era la guerra e gli amici anglo-americani lo inchiodarono lì. Ora finalmente è riuscito a scansarsi prima che esploda l’autunno caldo. La crisi l’ha cercata lui, stracciando le bandiere M5S, avallando la scissione dimaiana, sparlando di Conte a Grillo, rifiutando di stralciare dal dl Aiuti inceneritore e norme contro Rdc e Superbonus e imponendo l’ennesima fiducia per addossare la colpa (anzi il merito) ai 5Stelle, infine raggelando Mattarella col gran rifiuto di ieri (allora la “formula politica” c’era eccome). Tutti evocavano il Papeete e nessuno capiva che lo stava preparando Draghi.

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