Politica, la riforma della legge elettorale. Storia breve di una schizofrenia partitica all’italiana
di Raffaele Lauro (*)
1. I risultati delle recenti elezioni amministrative hanno certificato, al di là degli illusori trionfalismi dei presunti vincitori e delle miopie autoreferenziali dei sicuri perdenti, che l’unico allarmante vincitore sia stato l’astensionismo, testimone inoppugnabile del logorato rapporto di fiducia tra corpo elettorale e partiti, tra cittadini e istituzioni. Senso di responsabilità e consapevolezza della gravità di un problema, che minaccia la stessa democrazia repubblicana, avrebbero imposto, da subito, l’apertura di un serio confronto-dibattito, dentro e tra i partiti, sulle molteplici cause, politiche, economiche e sociali, di questa involuzione democratica, con una presa di coscienza, seppur tardiva, degli errori commessi e dei possibili recuperi di una dialettica, finora negletta. Niente affatto! É ripresa, as usual, la rissosità tra i partiti della cosiddetta maggioranza e quelli dell’opposizione, nonché all’interno di ciascun partito, tra le cosiddette leadership “residuali” e le rispettive minoranze interne, con spinte centrifughe, che rendono ancora più complessa la gestione del governo Draghi, nella fase di definizione della legge di bilancio. E lasciano intravedere, purtroppo, a livello parlamentare, la babele e le sorprese del voto segreto, per non dire altro, che caratterizzeranno, mortificandola, l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Paradossalmente l’effetto Draghi, un effetto-verità, sta portando alla luce del sole i dissidi e le contraddizioni irrisolte all’interno di ciascuno partito e delle obbligate coalizioni. Ha scoperchiato, magari senza volerlo, gli ipocriti sepolcri della disgregazione partitica in atto. Al contrario, il dibattito é occupato dalla riforma della legge elettorale, con il noto refrain, supportato dai soliti studiosi di parte, sulla necessità di garantire il binomio governabilità/rappresentatività con un ritorno al proporzionale o, sul fronte opposto, con un ulteriore rafforzamento del maggioritario. Allora vale la pena di ricostruire, in breve, la storia delle numerose riforme del voto degli ultimi trent’anni, caso unico nel mondo occidentale, espressione di una schizofrenia partitica, che non ha garantito l’enfatizzata stabilità, tantomeno la più ampia rappresentatività del corpo elettorale.
2. Va detto in premessa che i governi uscenti, nonché le maggioranze che li sostengono, in genere coalizioni, tentano di mettere mano alla legge elettorale per adattarla alle proprie prospettive di vittoria e di consolidamento del proprio potere, fondate su sondaggi di opinione o su risultati elettorali amministrativi di mezzo termine, non del tutto favorevoli. Non fu questa la ragione prevalente che spinse Alcide De Gasperi a proporre, nel 1953, una riforma elettorale in senso maggioritario rafforzato (65% dei seggi alla Camera al partito che avesse superato il 50% dei voti), quanto, piuttosto, la preoccupazione, rivelatasi nel tempo profetica, che un sistema elettorale proporzionale puro, allora vigente, con una soglia di sbarramento minima (1,5%), avrebbe portato alla proliferazione partitica e alla messa in pericolo, nel clima della guerra fredda, della stessa continuità democratica, costringendo il partito di maggioranza relativa, la DC, ad allearsi con la destra postfascista e monarchica. De Gasperi aveva visto giusto, né alcuno poteva sospettare che avesse pulsioni totalitarie, a simiglianza del passato (Legge Acerbo del 1924). Tuttavia, il partito comunista, bollando propagandisticamente quella proposta, come una “legge truffa” e insulto alla democrazia rappresentativa, riuscì a bloccare l’iniziativa. Una sconfitta, per De Gasperi, che portò anche al tramonto (e alla scomparsa!) del grande statista e leader democristiano. Per cui, tutti i numerosi governi, anche balneari, molti di durata annuale o di apertura a sinistra, le coalizioni e i compromessi, storici o meno, nell’arco temporale dal 1953 al 1993, hanno testimoniato, vigente il proporzionale puro con tre preferenze, la debolezza degli esecutivi, l’incapacità di azioni riformatrici incisive, anche di rango costituzionale, estenuanti trattative sui programmi, concessioni a partiti minori, l’assemblearismo parlamentare e gli aggiustamenti permanenti su ogni singola norma di legge, il fallimento dei tentativi di riforma della Costituzione, fino alla crisi della prima repubblica, dovuta alla degenerazione correntizia, ai finanziamenti illegali e alla conseguente tangentopoli, nonché la scomparsa o la trasformazione di quasi tutti i partiti storici. Nel pericoloso deserto di guida politica che si era venuto a creare, alla sbarra fu chiamato l’imputato principale: il sistema elettorale proporzionale puro. Da allora ad oggi, quindi, si è manifestata un’ossessione politica sulle riforme elettorali, in realtà un alibi, in una continua oscillazione di pendolo tra i due sistemi, il proporzionale o il maggioritario (alcune riforme abortite, perché giudicate incostituzionali!), più o meno corretti, più o meno temperati, più o meno bilanciati. Fino all’ultimo che ha portato, con i risultati delle elezioni del 2018, alla paralisi tra forze parlamentari equivalenti, al trionfalismo populista e ad una legislatura disgraziata. Con lo stupore di dover registrare, tra i politologi, cantori dell’uno o dell’altro sistema elettorale, disinvolti cambi di rotta, dettati, oggi, da convenienze partitiche contingenti.
3. Il balletto sulle riforme elettorali prende l’avvio nel 1991, con un referendum elettorale, che modifica da tre a una le preferenze per le elezioni della Camera dei Deputati. Nel 1993, un altro referendum determina il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario, con il cosiddetto “Mattarellum”, dal nome del deputato relatore della legge di riforma, Sergio Mattarella. Segue, nel 2005, il cosiddetto “Porcellum”, ispirato dal leghista Roberto Calderoli e varato unilateralmente dal centro destra, a trazione berlusconiana. Nel 2015, spunta un “Italicum”, bocciato dalla Corte Costituzionale. Da ultimo, nel 2017, viene approvato, come riforma del “Porcellum”, giudicato fuorviante e scandaloso, il cosiddetto “Rosatellum”, mediato e congegnato, tra il maggioritario e il proporzionale, dal deputato del partito democratico, Ettore Rosato. Quest’ultima riforma elettorale, che ha disciplinato le elezioni politiche del 2018, con i risultati che conosciamo, occupa, artificialmente, il dibattito attuale, oggetto di contrapposte aspirazioni, da parte delle obbligate coalizioni, in relazione anche allo sconsiderato e demagogico taglio dei parlamentari, varato senza un’adeguata cornice costituzionale. Taglio che ha scardinato i già precari equilibri, a garanzia della stabilità e della rappresentatività. La crisi della rappresentanza del ceto politico italiano, infatti, ha radici molteplici e non sarà risolta con nuovi artifizi elettorali, più o meno condivisi tra i partiti. Come non è stata risolta in passato. La schizofrenia partitica sulle riforme dei sistemi elettorali costituisce l’effetto, non la causa della crisi. Anche su questo aspetto, comunque, peserà la cartina di tornasole delle prossime elezioni presidenziali, per il Quirinale, le cui modalità e risultati potrebbero sparigliare e nientificare tutti i calcoli del presente sull’ennesima riforma elettorale.
(*) Segretario Generale di Unimpresa