Nella tenuta agricola de “le peracciole” il dialogo ideale tra don Alfonso Iaccarino e Nello Lauro…
di Antonino Pane
Non risulta facile, lo confesso, dal punto di vista emotivo, leggere, d’un fiato, o rileggere, le cinquecento pagine di un romanzo, come quest’ultimo di Raffaele Lauro, “Don Alfonso 1890 – Salvatore Di Giacomo e Sant’Agata sui Due Golfi”, mantenendo il necessario distacco del cronista, del commentatore o, semplicemente, del lettore, quando la narrazione ti propone vicende, umane e professionali, particolarmente esaltanti, delle quali sei stato, direttamente o indirettamente, testimone, o quando i protagonisti di queste vicende sono persone, o meglio personaggi, che hai amato e stimato, che continui ad amare e a stimare, perché occupano un posto non secondario nel tuo universo affettivo.
Il pregio indiscutibile della prima parte di questo libro consiste nella ricostruzione storica di un mito, il fondatore della dinastia Iaccarino, don Alfonso Costanzo Iaccarino di Sant’Agata sui Due Golfi, creatore della Pensione Iaccarino, che offrì ospitalità, tranquillità e buona cucina a tanti personaggi famosi, dal tenore Enrico Caruso al poeta Salvatore Di Giacomo. La seconda parte, titolata, non a caso, Le Peracciole, la tenuta agricola di don Alfonso e Livia Iaccarino, a Punta della Campanella, spaziando con lo sguardo, sopra Capri e sul Golfo di Napoli, rappresenta, a mio giudizio, un piccolo capolavoro per la perfetta corrispondenza, una sorta di consonanza spirituale e morale, tra i sentimenti espressi dai protagonisti (Alfonso e Livia Iaccarino, con Nello Lauro), nel corso del loro dialogo, ideale e amicale, e la bellezza travolgente della natura circostante, trionfante di luci, di colori, di sapori e di profumi. Un luogo incantato, un giardino paradisiaco, un rifugium, un tempio eretto da don Alfonso alla sua cucina, al suo amore per la natura, al suo mito della classicità antica e, non da ultimo, alla sua dimensione interiore. Chi ha avuto, come me, il privilegio di visitare e di “godere” di questa location, unica al mondo, converrà con queste mie espressioni. Non mi sono chiesto perché Raffaele abbia scelto Nello e non altri, cioè una star dell’ospitalità alberghiera internazionale, come interlocutore di una star della cucina mondiale, conoscendo bene, di persona, la loro amicizia, la loro collaborazione e la loro reciproca considerazione, ma come abbia fatto, a dieci anni dalla prematura scomparsa, in Svizzera, dell’amato fratello, a tenere a bada l’onda dei propri sentimenti, evitando di scadere in un pur giustificabile sentimentalismo. Ne abbiamo parlato, tra noi, come sempre, a cuore aperto, senza poter sfuggire, tuttavia, a qualche ricordo, che appartiene, di diritto, alle nostre piccole storie personali.
D.: Non è stato facile, per te, scrivere la seconda parte di questo tuo nuovo romanzo, che ti tocca da vicino!
R.: Nessuno lo può capire meglio di te, anche se sono passati quasi dieci anni dalla scomparsa di Nello, lasciando, nella famiglia e in quanti lo stimavano, un vuoto immenso, incommensurabile. Un uomo buono, di forte personalità, sempre positivo, inesauribile, comunicativo, adorato e adorabile, un vero sacerdote dell’amicizia disinteressata tra uomini, popoli e nazioni. Lugano e il Canton Ticino hanno perduto, con lui, non soltanto un grande manager alberghiero, difficile da sostituire, ma anche un attivissimo animatore e organizzatore culturale, appassionato di lirica e di pittura, un autentico attrattore di personalità politiche, istituzionali e artistiche. Un motore turistico. Fortunatamente mi ha soccorso la memoria dei giudizi entusiasti, che Nello esprimeva su Alfonso e Livia, da lui definiti la “coppia regale della ristorazione italiana e dell’alta cucina”. Mi hanno aiutato, inoltre, i puntuali racconti, gli episodi e gli aneddoti di Alfonso e di Livia sulla loro amicizia con Nello, sullo spirito di solidarietà e sull’ammirazione reciproca che animavano i loro rapporti e sulla comune consapevolezza di rappresentare, nel mondo, la genialità italiana. Si sentivano degli ambasciatori dell’arte della ospitalità e, nei loro incontri, all’estero, con amici stranieri, non mancavano mai di ricordare la bellezza dei loro paesi di origine, di Sorrento, di Massa Lubrense e di Sant’Agata sui Due Golfi. Ho cercato, comunque, di individuare un altro interlocutore per Alfonso e Livia, al posto di Nello, ma invano. Sono sopravvissuto, comunque, alle emozioni, perché, in questa parte del libro, non ho dovuto inventare niente, per cui il dialogo, tra loro, pur ideale, rappresenta, nei contenuti, nei tempi e nei luoghi, corrispondente alla realtà storica, anche se in sintesi.
D.: Non è la prima volta che fai ricorso ai dialoghi, anche in chiave onirica, come forma narrativa, per svelare le storie e i profili psicologici dei protagonisti dei tuoi romanzi! Ricordo il tuo secondo libro su Lucio Dalla, sul legame del grande artista bolognese con San Martino Valle Caudina. Reminiscenze filosofiche?
R.: Non ti sbagli del tutto, in quanto il modello classico del dialogo rimane quello antico, di matrice filosofica, consacrato, nella storia del pensiero occidentale, da Platone. Come forma narrativa specifica, in letteratura, il dialogo facilita la comunicazione, svela meglio la voce dell’autore ed è espressione di una cultura più partecipativa e democratica. A me è sembrata la forma più idonea, fresca e immediata, per far emergere il confronto di idee e di valori tra personalità equivalenti, come dire, alla pari: Alfonso e Nello; Nello, Alfonso e Livia.
D.: Torniamo a Le Peracciole. Appare evidente la scelta del luogo, dove si svolge questo dialogo.
R.: In effetti, Alfonso e Livia avevano invitato molte volte Nello a visitare il loro gioiello, la loro tenuta agricola, fertile, rigogliosa, strappata alle rocce, coessenziale alla loro stessa filosofia gastronomica. Senza i prodotti de Le Peracciole, non esisterebbe la cucina del don Alfonso. Naturale, genuina, mediterranea. Nessun altra location sarebbe stata più congeniale, più idonea a questo loro dialogo. D’altro canto, la tenuta agricola rappresenta anche un di più per Alfonso: il rifugio segreto, il regno del silenzio, il tempio del riposo, il luogo della riflessione, il godimento della bellezza della natura, della nostra terra. In compagnia sempre dei fedelissimi cani, che lo seguono nelle battute di caccia, persino in Mongolia. Oppure confrontandosi con i quattro contadini, che ne curano le colture, gli orti, gli agrumeti, gli uliveti, le erbe officinali e tante altre piante della nostra tradizione contadina, quasi scomparse.
D.: Nello ben conosceva la determinazione di don Alfonso e di Livia, nell’acquistare quella proprietà incolta, abbandonata, trasformata, in molti anni e con sacrifici, anche economici, in un Eden. Furono quasi irrisi da parenti e amici, da chi non capiva la loro prospettiva, la prospettiva di due visionari.
R.: Nello ammirava il coraggio di Alfonso e di Livia, ben sapendo che quell’acquisto non fosse una mattata, uno sfizio, ma una necessità coerente con la loro filosofia gastronomica. Hanno avuto ragione. Basti l’esempio del limone. Alfonso considera i limoni come dei frutti sacri, miracolosi, luminosi, anche esteticamente. Le lumie dei siciliani. Naturalmente, non i limoni in genere, ma i “suoi” limoni de Le Peracciole. Il suo limoncello e i suoi dessert, i famosi concerti di limone, non sarebbero stati creati senza i “suoi” limoni.
D.: Mi ha affascinato come don Alfonso parla, appunto, dei suoi limoni.
R.: Alfonso raccoglie o fa raccogliere, ogni giorno, i limoni, in modo che possa contare sempre su frutti freschi, profumati, per il suoi dessert, tra i quali, il celebre concerto di limone. Per preparare, inoltre, secondo un’antica ricetta familiare, il limoncello, che fu apprezzato dalla celebre cantante Mireille Mathieu, quando festeggiò il suo compleanno al Don Alfonso 1890. La Mathieu lo ricordava sempre a Nello, quando si incontravano, a Lugano o a Parigi. Aveva apprezzato, a Sant’Agata, il pomodoro cuore di bue de Le Peracciole e il limoncello preparato da don Alfonso.
D.: Ho trovato pieno di fascino quel pranzo, organizzato, a Le Peracciole, da Livia, per l’amico Nello, sotto quel pergolato ricoperto di un glicine americano, portato dall’isola Victoria, fiorito e profumato, e assediato da siepi di gardenie in fiore, portate dall’Oriente. La tovaglia, le porcellane, il menù…
R.: Tutto splendido, ma Nello fu colpito, in particolare, da quel tocco di gran classe di Livia, con quel vaso di cristallo con fiori, posto a decoro sul tavolo, lo stesso vaso raffigurato nel celebre dipinto del pittore pugliese impressionista di Barletta, Giuseppe De Nittis, “Colazione in giardino”. Lei sapeva bene della passione di Nello per la pittura impressionista e per lo stesso De Nittis, epigono italiano di Monet e di Manet. E divenne euforica, quando Nello riconobbe il dettaglio e lo apprezzò, un dettaglio così raffinato e, insieme, così delicato verso l’ospite.
D.: Le due passioni artistiche di Nello, se ben ricordo, furono la lirica e la pittura.
R.: La prima gli derivò dalla frequentazione con il grande soprano Renata Tebaldi e con Luciano Pavarotti. Anche lui, il tenore, si dilettava a dipingere, come Nello. La seconda dall’amicizia con il barone Heinrich Thyssen-Bornemisza, il più grande collezionista d’arte privato del mondo, suo mentore, il quale lo spinse a dedicarsi alla pittura e acquisì un quadro di Nello alla sua prestigiosa collezione.
D.: Don Alfonso e Nello affrontano, nel loro dialogo, altri temi più impegnativi, come il successo professionale, la dedizione al proprio lavoro e l’eredità morale da trasmettere alle nuove generazioni, a partire dai propri figli.
R.: Entrambi rivendicano con orgoglio il loro percorso professionale e don Alfonso, in particolare, lo fa con espressioni illuminanti. “Sono consapevole di appartenere ad una famiglia speciale, dedita, come mio nonno, il nostro fondatore, al lavoro, espressione della propria umanità e creatività. Come lui, io non possiedo una visione egoistica e cumulatrice di successi, di prestigio e di danaro, piuttosto nutro una visione di partecipazione e di condivisione con gli altri. Con la volontà di trasmettere ai giovani, figli o allievi, un sapere, umano e professionale, che, altrimenti, andrebbe perduto”. In realtà, la cifra di entrambi fu la medesima: essere stato, per Nello, e continuare ad essere per Alfonso, un “maestro”, con lo sguardo sempre rivolto al futuro.
D.: Toccano anche il tema degli chef ipermediatici, presenti più in televisione e negli spot pubblicitari che nelle cucine, i cosiddetti chef-superstar, che riempiono di interviste le riviste di gossip.
R.: La risposta di don Alfonso, condivisa da Nello, appare esemplare: “Non giudico gli altri, anche se, presto o tardi, questo eccesso di esposizione mediatica, che poco ha a che vedere con l’alta cucina, si ritorcerà, come un boomerang, su tutta la categoria. Io non dimentico mai le mie origini, cerco di stare, insieme con mia moglie, sempre con i piedi per terra, come mio nonno Alfonso Costanzo e come mio padre Ernesto”.
D.: Felice mi sembra anche la risposta che don Alfonso fornisce a Nello sulla sua collocazione, come capo dello staff di cucina, tra i due poli estremi: tra lo chef-dittatore autoritario e lo chef-direttore d’orchestra.
R.: Alfonso non nega che, in cucina, sia necessario l’ordine, oltre alla disciplina e la chiarezza dei compiti di ciascuno. Autorevolezza, non autoritarismo, che non discende dall’alto, ma nasce da una corrispondenza tra chi comanda e chi esegue, da sentimenti reciproci di stima e di considerazione. Don Alfonso si dichiara lontano mille miglia dalla figura dello chef-dittatore, propende più per lo chef-direttore d’orchestra.
D.: Secondo te, la lettura di questo tuo libro potrebbe essere utile agli allievi delle scuole alberghiere?
R.: L’autorevolezza riguarda chiunque eserciti un comando e abbia la responsabilità di uno staff, di un team. La concezione di don Alfonso può servire a tutti, in cucina, sul ponte di comando di una nave, alla guida di un ministero o di un movimento politico.
D.: Un’ultima domanda. Ho letto che il tuo prossimo libro sarà dedicato all’epopea di don Peppino Manniello e del ristorante ‘O Parrucchiano. Un’altra istituzione storica della ristorazione sorrentina, conosciuta in tutto il mondo!
R.: Di fronte a ristoratori improvvisati, in circolazione, e agli chef, senza storia alle spalle, che stanno inflazionando le nostre contrade, sia il Don Alfonso 1890 di Sant’Agata sui Due Golfi che ‘O Parrucchiano di Sorrento hanno radici profonde, che partono dall’Ottocento; hanno avuto fondatori, illuminati e geniali, e sono arrivati, con il prestigio e il successo, alla quarta generazione. Sono due fiori all’occhiello del nostro turismo e vantano una fama internazionale. Io sono onorato e orgoglioso di poter raccontare queste storie e di riuscire a trasmetterle alle giovani generazioni.