Vedere di giorno quello che si è già visto di notte. A ben rileggere un testo di storia
di Luigi Poi
“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. Ed anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla spiaggia ed ha detto: <non c’è altro da vedere> sapeva che non era vero” José Saramago. Certamente il poeta e scrittore portoghese non si riferiva solo ai panorami, agli ambienti fisici ed alle persone ma anche allo studio, alle idee, alla lettura dell’accaduto; “bisogna tornare sui passi già fatti, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini”. Certamente la storia va riletta sia la piccola storia quotidiana che la grande storia dell’umanità.
Spesso siamo superficiali o troppo condizionati dalla ricerca di una conferma ad una nostra convinzione o frettolosi nello sfogliare le pagine o momentaneamente distratti durante l’esame di un testo. Quindi sarebbe buona abitudine, soprattutto per i nostri politici, storici, giornalisti, conduttori televisivi e noi stessi, non avere timore di rimangiarsi qualche frase, qualche giudizio, qualche decisione, qualche presuntuosa sicurezza. Una volta esisteva una ironica rubrica dal titolo “le ultime parole famose“ che con umorismo si divertiva a smontare affermazioni, dichiarazioni ed enunciazioni che venivano ridicolizzate dai fatti e dal tempo. “RIPETERE” era anche un termine che usavano molto i professori di una volta quando la scuola era palestra di conoscenze e di vita.
Veniamo al dunque! Negli anni 70-80 a Massa Lubrense, con eco anche ben oltre i confini comunali assistemmo ad un vivace ed intenso litigio, un vero e proprio battibecco tra un Magistrato con la passione per l’archeologia ed il locale l’establishment culturale, custode molto geloso della memoria storica locale. Con l’aggravante che il dibattito si alimentò anche di spirito campanilistico (‘ngopp e sotte) ed al quale parteciparono anche alcuni esponenti della cultura Napoletana. Tutto iniziò quando il magistrato invece di indagare fu indagato. Il giudice Domenico Galasso innamorato di Massa Lubrense, tanto che si fece seppellire nel cimitero dell’Annunziata a Santa Maria, osò avanzare la tesi che il famoso tempio delle Sirene fosse ubicato sulla collinetta Sireniana, oggi più nota come il Deserto. Ognuno disse la sua, ognuno fece sfoggio di conoscenze. Dibattito inizialmente in buona fede che poi degenerò anche in battaglia politica, economica, culturale. All’epoca potevo vantarmi di una sincera e disinteressata amicizia con Benito Iezzi (tanto che curò la pubblicazione del mio modesto libro “Il Deserto di Massa Lubrense” e ne affidò la stampa alla benemerita tipografia La Massese). Benito mi confidò di non voler partecipare al dibattito perché notava troppi personalismi che niente avevano a che fare con l’oggetto della contesa e mi confidò anche che aveva visto negli scantinati del museo Nazionale di Napoli alcuni cassoni in legno con la scritta “Deserto di Sant’Agata sui due golfi”.
Del resto non bisogna nascondere il vero problema: è impossibile tutelare ed esporre un patrimonio così vasto ed imponente come quello italiano a meno che non si fa piazza pulita di tutti i vincoli burocratici e di legge che frenano l’affidamento, la custodia e l’esposizione alle comunità locali.
Tra l’altro il Magistrato Napoletano individuò un tratto della via “ubi Sirenae“ che l’imperatore Augusto, forse seguendo un più antico tracciato Etrusco o Greco, fece costruire per i suoi veterani ai quali, reduci da cento battaglie, fece dono di possedimenti sulle alture sorrentine.
RIVEDERE DI GIORNO QUELLO CHE SI E’ GIA’ VISTO DI NOTTE?
Si impone un passo indietro di migliaia di anni, a quanto scrisse Publius Papinius Statius per indicare l’esatta ubicazione della fastosa villa di Pollio Felice: “Est inter notos Sirenum nomine muros, saxaque Tyrrhenae templis onerata …“. Letteralmente si può tradurre “fra le note mura dal nome delle Sirene e le rocce del tempio di Minerva Tirrena“ sorgeva la villa del patrizio romano; la miglior traduzione di “inter“ è proprio quella di Iezzi “a mezzo”. Mentre “Sirenum nomine muros“ rafforza “ubi Sirenae“ di Strabone e “Surrentum cum promontorio Minervae Sirenum quondam sede” di Plinio. Indicazioni utilizzate dal Galasso per dar forza alla sua tesi perché effettivamente il colle Sireniano si trova proprio sulla sinistra dei resti della villa romana, guardando dal mare, ed è dotato di una cinta muraria imponente, anche se manomessa ed in parte demolita, poco ancora l’esistente. Per di più il Galasso recuperò una fotografia di un antico quadro della foresteria dell’Eremo in cui alle spalle di alcuni frati in preghiera si scorgono “le note mura”, ridotte male e dirupate.
Fece anche presente la differenza tecnica dell’uso della pietra nel loro taglio e nella loro estrazione. Inoltre nel versante del rivolo di Ghezzi la cintura muraria si duplica e se ne intravede una più possente ed alta che incorpora quella più antica. I tre frati in preghiera raffigurati nel quadro erano dei Terziari Francescani dell’ordine del Padre Fondatore come si evince dall’abito che indossano mentre la figura supina sotto la Croce potrebbe essere proprio Padre Ludovico da Casoria che abitualmente vestiva un saio marrone. Ritrovamenti murari ed i resti della via Augustea non sono mai stati sufficientemente approfonditi. Apriti cielo! Una raffica di contestazioni e critiche basate sulla convinzione (buona fede o malafede?) che le mura erano state edificate dai Padri Carmelitani. Le brave archeologhe impegnate negli scavi della necropoli arcaica del Vadabillo, Tommasina Budetta e Valeria Sampaolo, si tennero fuori dalla polemica e saggiamente concentrarono la loro attenzione sulla verifica, la catalogazione e l’osservazione dei reperti che trovavano nelle tombe.
Rileggendo i documenti e gli opuscoli del secolo scorso ed in particolare “La vita del P.Lodovico da Casoria –Napoli,1887 di Alfonso Capecelatro“ apprendiamo che i Padri Carmelitani non erano i proprietari di tutti i fondi che circondavano l’edificio e quindi non potettero costruire i “notos muros” che secondo il poeta latino circondavano tutta la collina “Sirenum nomine“. Furono i Bigi dopo alcuni anni dal loro arrivo e dopo aver completato i lavori di ristrutturazione dell’ edificio principale ad acquistare qualche fondo, probabilmente mura comprese. Inoltre una cartolina del 1923 mostra che ancora esistevano resti di muraglioni alti e massicci proprio sulla sommità dell’Eremo all’epoca tenuto dai seguaci del Padre di Casoria.
Restaurata la Chiesa e in gran parte la Casa, il P. Lodovico, tra mille difficoltà, ottenne di avere a censo il territorio attorno e di ridurlo a colonia agricola.
Tanto trova conferma nella Vita del Venerabile P. Lodovico da Casoria, ad opera del Can. Prof. L. Fabiani stampato ad Assisi e ripubblicato nel 1989 dove si legge che inizialmente al Deserto si faceva scuola ai poveri orfanelli venuti anche da Napoli e provincia ed ospizio per i vecchi marinai poveri della Penisola Sorrentina. Solo successivamente “intorno fu stabilito una colonia agricola per insegnare ai piccoli poveri orfani il lavoro della terra”. Per considerare quale versione è quella giusta bisognerebbe scovare i dati del catasto di fine settecento per conoscere chi fossero i proprietari dei fondi che circondavano la base della collina Sireniana oppure individuare gli atti notarili dalla fine del seicento ad inizio novecento con i quali si effettuarono i vari passaggi di proprietà a favore dei Santi Padri.
Intanto il Presidente dell’Archeoclub Lubrense, Stefano Ruocco, ha rintracciato un documento del 1686, per mano del notaio Giovanni Maria Antonetti, custodito nell’”Archivio dei trenta notai” di Roma che fa cenno ad una acquisizione da parte degli Scalzi di un frutteto di proprietà di una Chiesa Sorrentina, nelle vicinanze della allora costruenda via Crucis, in località Vadabillo leggermente al di sotto della prima parte delle mura di cinta. Il documento notarile contiene una piantina ad acquerello della zona. Bisognava cercarla e ci siamo riusciti.
Per di più le vicende storiche dei Carmelitani e dei loro eremi ci insegnano che l’abbandono delle città e la volontà di far prevalere l’aspetto spirituale ed eremitico della loro missione con la costruzione dei loro conventi “Deserti di Santa Teresa“, sia in Spagna che in Italia seguono sempre lo stesso schema e non risulta che venissero chiusi da cinte difensive così estese e dal notevole costo di edificazione; di solito usavano limitarsi alla recinzione delle aree limitrofe ai loro “Deserti” ed agli ingressi, molti sono anche gli esempi di “open space“ più adeguati all’esercizio, a loro caro, della meditazione cristiana.
Ritornando alla recentissima ricerca effettuata grazie alla collaborazione di Stefano Ruocco e alla benevole e squisita disponibilità della direttrice dell’Archivio generale dello Stato in Roma, dott.ssa Maria Beatrice Benedetto, possiamo vantarci di notizie inedite dal citato documento depositato presso l’archivio dei “Trenta notai capitolini”.
Trattasi di un atto per mano del notaio Giovanni Maria Antonetti risalente come datazione al 1686 e come attribuzione al 1688 e riguardante la cessione del fondo “Vadabillo“ per commissione del Cardinale Galeazzo Marescotti, abate e perpetuo commendatario dell’Abbazia del S.S.Salvatore della città di Sorrento. Grazie anche al prezioso aiuto del dirigente Dott. Riccardo Gandolfi e della Dott.ssa Paola Ferraris, reparto fotoriproduzioni del citato archivio, siamo in grado di leggere che si trattava di un fondo “iuxta li sopradetti confini, di capacità di moi quattordici, quarta sei e passi diciotto, censuati alli padri Carmelitani Scalzi del Santo Deserto della città di Massa Lubrense”.
Apprendiamo anche che quasi tutta la collina era di proprietà della Chiesa sorrentina o della nobiltà, infatti nella indicazione dei confini compaiono D.Gio.Battista Pignatelli e D.Gennaro Correale. La stessa funzionaria ci ha anche trasmesso una lettura della piantina allegata composta da pochi schizzi in acquerello di china nero ed in decomposizione. Il fondo Vadabillo conteneva “una pagliara”, “un bottaio diruto” nella versione originale definito anche “bustaro diruto”che significherebbe ben altra cosa: ossario) e qualche quercia e fonti d’acqua posti sui confini. A sud-est c’è scritto “beni silveti del Santo Deserto de RR.PP Carmelitani Scalzi , lungo il confine ovest del fondo, verso nord si legge“ strada pubblica per la quale si viene dal Casale di Sant’Agata di Massa “e più a nord “ fonti d’acqua sorgente”; lungo il confine nord-est “rivo d’acqua”. Buona parte del terreno era “vitato e fruttato, poca parte seluto e maggiore parte scampese”. Quindi possiamo escludere che il fondo ceduto si trovasse entro le mura che circondano la parte più prossima alla vetta della collinetta, cioè dove scavò il Fiorelli, abbiamo invece la conferma delle numerosi fonti d’acqua esistenti in quell’area e che l’acquisto ,a distanza di circa 7-8 anni, seguì l’ altro precedente (la piana edificata) . Possiamo avere un’altra importante indicazione: i Padri Scalzi non erano costruttori di mura tanto che ancora oggi il fondo Vadabillo non presenta segni di fortificazioni o cinture murarie ed il fondo fu acquistato esclusivamente per “meliorare et aumentare”. Del resto essendo l’acquisto del fondo Vadabillo intervenuto durante la costruzione dell’Eremo se fossero stati i Carmelitani Scalzi ad edificare le mura che circondano la ex collina Sireniana chiaramente avrebbero incluso anche questo nuovo fondo.
Il Galasso aveva visto bene? Le mura di recinzione erano ben più antiche ed incrociavano la via romana, “ad essa tangente“, larga quindici piedi? Quello che si può tranquillamente affermare è che ancora è possibile notare che si estendono per molte centinaia di metri, senz’altro più di un chilometro e nella parte più vicina al convento, poco distanti dalla via Crucis, nella selva sottostante ,leggermente oltre la cinta muraria,sussisteva l’antica necropoli del Vadabillo mentre all’interno della cinta muraria furono effettuati ritrovamenti da Fiorelli e durante gli scavi delle fosse per seppellire i morti di colera.
(Notizie utili si possono attingere dalla tesi dell’arch. Elena Russo – Prof.Arch G.Cantone-1996-1997 – Facoltà di architettura di Napoli – “ Federico II“), ma anche dalle relazioni delle due responsabili delle campagne di scavo effettuate nel 1983 ed 1984 e poi dal 1994 al 1997. Dottoressa Valeria Sanpaolo, “La Penisola Sorrentina in età arcaica e classica” da Archeologia a Piano di Sorrento- pagg.110-111 , Arte Tipografica –Napoli, 1990 e dottoressa Tommasina Budetta , ”La necropoli del Deserto di Sant’Agata sui due Golfi “- 1996, Orizzonti Economici stampato da Incisivi, Salerno).
Questa necropoli era solo una delle quattro finora individuate lungo l’area in discorso. Già nell’estate del 1855 al monte Sireniano, oramai comunemente chiamato Il Deserto di Sant’Agata sui due Golfi, salì l’archeologo Giuseppe Fiorelli che in alcuni appunti autobiografici pubblicati nel 1994 da Di Mauro Editore lasciò scritto: “Vi andai preoccupato delle difficoltà dell’impresa , non avendo mai visitato quelle campagne, nelle corse furtive che vi avevo fatto un dieci anni innanzi. Giunto colà un giorno,quando la <bande joyeuse>, che così appellavano i villeggianti l’allegra brigata principesca, si riposava dalle passeggiate mattutine , corsi pe’ dintorni, e tra gli altri luoghi al Deserto che mi sembrò un sito conveniente per tentare qualche preliminare esplorazione. La fortuna benigna arrise alle mie speranze , perché, montati colassù in grande comitiva il giorno appresso, nel posto appunto che io avevo additato fu scoperta una tomba di lastroni di tufo a coperto piano, dalla quale vennero fuori molti vasi dipinti con altri di bronzo, e vetri di prodigiosa bellezza. Cagione a me di gioia indicibile e di meraviglia negli astanti , che non vollero prestar fede alle mie più ingenue dichiarazioni di ignorare affatto l’antica topografia della sorrentina necropoli”.
Riepilogando le mura di Stazio formerebbero un sacro recinto per tre necropoli, quella del Vadabillo, quella di Fiorelli, quella per niente indagata sul lato sinistro della via Crucis. Forse i ritrovamenti di Fiorelli corrispondono con quelli visti da Benito Iezzi nei depositi del Museo Archeologico di Napoli e di cui ha scritto la dott.ssa Valeria San Paolo a pag.110 della documentata pubblicazione “Archeologia a Piano di Sorrento-Ricerche di preistoria e di protostoria nella Penisola Sorrentina – Arte tipograficha-Napoli, sett.1990“. Sin dalla fine dell’ ’800 era nota la ricchezza archeologica del Deserto in cui G.Fiorelli aveva effettuato indagini e da cui proveniva parte dei materiali che erano confluiti nella collezione del principe Santangelo, ora al Museo Archeologico di Napoli. ”I Carmelitani, invece, costruirono subito una strade di accesso al colle dal lato di Sant’Agata ed una prima rudimentale versione della via Crucis; in alcune foto di inizio novecento si vede l’architrave di ingresso incastrata tra bassi e mal messi muraglioni (non coerenti con le colonne e l’epistilio) oramai andati in rovina per molta parte del loro estendersi. Più giù sull’altro versante in testa ad Acquara e Pastena, anche ad occhio profano, le recinzioni murarie appaiano edificate con tecniche e materiali diversi o sovrapposte con strutture diverse ma alla base sempre rispettando l’orografia esistente. Gli archeologi ben ci insegnano che già dagli Etruschi fino ai Romani le necropoli ed i templi venivano protetti da cinte murarie. Rileggere i testi,ripassare la storia e ripetere le ricerche è sempre utile e spesso necessario! Ultima nota assai polemica: i bisticci, i litigi, le contrapposizioni, hanno portato alla perdita di tutti i corredi tombali in uno con la magnifica Ara pagana della Lobra, un ”furto” con tutti i crismi della legalità avvenuto stranamente senza i bisticci, i litigi e le contrapposizioni che avevano animato la contestazione alla tesi del Galasso anzi addirittura in alcuni casi con compiaciuto disinteresse. Solo l’archeoclub Massese cercò di intervenire, mentre l’associazione il Vadabillo che aveva organizzato con successo la mostra “La necropoli del Deserto – I nuovi scavi” con l’appoggio di Georges Vallet ed il determinante aiuto della dott.ssa Budetta improvvisamente rallentò la sua azione forse scoraggiata dal rifiuto della Superiore del Monastero Benedettino a prolungare la concessione e la disponibilità dei locali.
Le varie amministrazioni comunali succedutesi dal 1996 in poi hanno a dir poco sonnecchiato e la ”pizza” fu bella, cotta e servita favorendo la resistenza della Soprintendenza Archeologica Napoletana poco restia a lasciare in loco i corredi tombali ritrovati alle falde del Deserto. Atteggiamento ostile già dagli anni ottanta quando l’allora reggente rispose al sottosegretario per i Beni Culturali ed Ambientali, On.le prof. Giuseppe Galasso, in data 24 maggio 1984 in questi termini: “Pur apprezzando l’interessamento del comitato civico (Amici del Deserto di Sant’Agata sui due Golfi) alla conservazione in loco dei materiali provenienti dagli scavi effettuati, si esprime la perplessità di questa Soprintendenza circa l’opportunità di depositare materiale acquisito dallo Stato in sedi di proprietà di altri Ente”. Successivamente sempre su pressione del Comitato civico e del Sottosegretario questa rigidità fu ammorbidita tanto che la stessa soprintendente reggente, Enrica Pozzi, in data 2 luglio 1984 scriveva che si rinviava “il trasferimento dei corredi tombali provenienti dagli scavi di Sant’Agata, al momento in cui saranno individuati ed acquisiti idonei spazi espositivi”.
Per la storia ed a futura memoria il Comitato Amici del Deserto aveva proposto il recupero della Sala Maiolicata per poter adibirla a sala espositiva potendo cogliersi così due piccioni con una sola fave. Ma, ad esclusione dell’On.le Galasso, non si trovò nessuna sponda pur stando ad un passo dalla soluzione. Un grave errore della politica locale, una posizione egoistica del Vescovado Sorrentino, una sottovalutazione da parte delle associazioni culturali, un poco di gelosia dal sapore campanilistico. Che significato ha esporre il materiale ritrovato tanto lontano dal luogo di appartenenza e da cui è venuto alla luce e collocarlo in una località che non è storicamente collegabile, non riconoscibile e comprensibile dal punto di vista geografico. Un regalo alla città di Piano, un danno enorme alla città di Massa Lubrense, sia dal punto di vista culturale che economico. Bravi loro! Sicuramente una mossa avveduta da parte dell’allora Sindaco di Piano di Sorrento che perlomeno impedì il trasferimento altrove di questo prezioso patrimonio. Per quanto ci riguarda non possiamo non sottolineare il giudizio negativo su chi rivestendo incarichi pubblici a Massa Lubrense si è completamente disinteressato della vicenda; eppure i locali da offrire c’erano da Villa Cerulli, alla Sala Ginori del Deserto, ad ambienti religiosi e pubblici non più utilizzati. Ancora oggi molti non capiscono che la mancanza di un deposito archeologico e la perdita dell’Ara pagana della Lobra in primis hanno privato alcune generazioni di Massesi della possibilità di vedere e toccare con mano le tracce delle loro origini e le hanno limitate nel conoscere l’importanza storica della loro terra che ospitò due dei culti più rilevanti delle culture Etrusca, Greca e Romana. Per non parlare del danno al Turismo. Ma soprattutto si è vanificato quando scriveva il Soprintendente Stefano De Caro presentando l’esposizione dei reperti della campagna di scavo condotta dal Maggio 1994.
“L’esposizione riguarda una scelta di corredi funerari della necropoli arcaica di Sant’Agata sui due Golfi emersi durante la recente campagna di scavo dei mesi scorsi, con l’intento di offrire subito alla comunità locale una panoramica, sia pure parziale e preliminare, su un’importante fase della storia, dell’occupazione del sito e dei rapporti di questo con gli altri centri e culture della Campania”.
Allora perché trasferirla prima a Sorrento e poi a Piano? Perché non si è capito o si è fatto finta di non capire che l’esposizione in loco dei nostri reperti oltre a decodificare il mito agli occhi dei ragazzi avrebbe aggiunto valore alle altre risorse del territorio (Gastronomia, panorami, qualità della produzione agricola, accoglienza, mare praticabile)?
Come si fa a non assumere come punto fermo che l’attuale andamento del migliore turismo ha sempre più una valenza culturale ed escursionistica ed è per questo fondamentale conservare i tratti paesaggistici e gli aspetti culturali di una località?
Ma soprattutto come si fa a non comprendere che la presenza di musei del territorio, musei di vicinanza, fortificano l’impegno civico, la memoria storica, il senso di appartenenza, il gusto della bellezza, la difesa ambientale ed il benessere sociale ed economico di una comunità?
Come si fa a non comprendere che è la cultura diffusa e partecipata, quella che è patrimonio di una intera comunità e non di una elite, il vero argine alla devastazione del territorio ed alla sopraffazione dei migliori valori, fisici e spirituali, che un popolo incorpora nella sua terra e nella sua storia?
La reminiscenza delle tradizioni e delle vicende storiche (anche mitiche) condivisa da generazione dopo generazione è fondamentale per evitare che vengano cancellate le orme di chi è passato prima di noi e ci mette in grado di tutelare il patrimonio culturale ed ambientale la cui affermazione è l’unica vera strada al concreto sviluppo sociale ed economico e, senza banali enfatizzazioni, il modo migliore per realizzare vere occasioni di lavoro.
Non possiamo chiudere alla speranza dovendo registrare che intorno all’archeoclub di Massa Lubrense, capitano da Stefano Ruocco, si è formato un nuovo gruppo dirigente formato da giovani e validi studiosi che possono vantare al loro attivo anche interessanti pubblicazioni, serie ricerche e rigorose competenze professionali. Essi saranno in grado di dare un diverso sguardo, una innovativa spinta, una forte pressione ed un attivo impulso per il recupero delle memorie della loro terra, lo si intravede già dalle prime iniziative come la fondazione di una casa editrice locale. A chi scrive sembra giusto e doveroso citarli: Francesca Cacace, Elisabetta De Simone, Ester Esposito, Roberta Gambardella, Alessia Primativo, Vincenzo Astarita, Gennaro Galano, Domenico Palumbo, Aldo Terminiello.
Spesso la patria è ingrata ma “non esiste sasso sul vostro cammino che non possiate sfruttare per la vostra crescita”. Purtroppo questa nota di lieve ottimismo e di speranza per il futuro fa a pugni con una apparato burocratico che ha innestato da decenni il freno e forse non ricorda più nemmeno come disinnescarlo ed un personale politico poco lungimirante e troppo impegnato a difendere il proprio elettorato. Ogni corona ha bisogno del suo Re, ogni corpo del suo cuore, ogni luogo della sua anima! Absit iniura verbo sed difficile est quarere ab asino lanam!