Italia,  Sorrento

Il turismo dopo la pandemia: sperare diventa un rischio da correre

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di Gaetano Gargiulo*

Prendendo spunto dalle condivisibili e inappellabili censure, fatte da Raffaele Lauro, sulla obsoleta promozione del “modello Sorrento”, partorito dagli Stati Generali del Turismo, per promuovere il brand della città all’estero, credo sia importante riflettere, in maniera non contingente e sul piano generale, sul futuro del turismo, nazionale e locale, nonché dell’economia in generale, dopo la pandemia.
Il futuro reclama una visione ampia e per averla bisogna porsi qualche domanda:
1. Oggi stiamo veramente vivendo o stiamo tentando di resistere ad un nemico invisibile, ad un nemico interno, di cui ognuno di noi potrebbe essere un involontario e talvolta inconsapevole fiancheggiatore?
2. Siamo o non siamo consegnati alla confusione, al disorientamento di una scienza incerta, claudicante che resta comunque l’unico faro a cui riusciamo a guardare?

Per tentare di rispondere a queste due domane bisogna partire dalla consapevolezza che innanzi a ciascuno di noi ci sono solamente due vie. La prima è quella di condurre un’esistenza in dormiveglia sperduta nel miraggio. La seconda è quella del confronto onesto, vigoroso ma soprattutto risolutivo. In questa ultima ipotesi vanno scovati e resi disponibili donne e uomini coraggiosi, intelligenze diverse più adatte alle sfide, gente disposta a mettersi in gioco, a sbagliare e se occorre, anche a perdere qualcosa. Io però (perdonatemi la cecità) non vedo niente di tutto ciò! Ogni comportamento, ogni avanzamento o arretramento, raramente nasce da un giusto equilibrio tra mente e cuore rimanendo spesso, una questione diposizioni da conservare, di costi/benefici in cui egoisticamente, ciascuno individualmente (al massimo per categorie) guarda a dove si trova ed a come si trova.
Quasi in tutti gli ambiti il modo in cui si tenta di affrontare il cambiamento, rivela la mancanza di segnali che fanno pensare all’emergere di idee completamente nuove, ma soprattutto l’assenza di ogni sostegno libero alla nascita di un pensiero differente che incarni un nuovo modo di essere e di agire. Manca quella che Hartmut Rosa definiva «la presenza di assi di risonanza aperti, vibranti e allettanti, che conferiscano suoni e colori al mondo e che consentano al Sé di guadagnare in sensibilità, emozioni e movimenti».

In questi ultimi mesi si è fatto un grande uso, anzi un abuso, del termine “Resilienza” senza rendersi neppure conto che per mettere in atto un processo resiliente è necessario innanzitutto modificare il pensiero che si ha di sé stessi, degli altri e dei contesti. Per farlo si ha bisogno di un “ingrediente” che scarseggia: la Resipiscenza. Peccato che nessuno, almeno fino ad oggi, abbia ancora pensato di convocare un Consiglio di Resipiscenza. Probabilmente perché la resipiscenza, essendo un termine scomodo e peraltro poco utilizzato, è diventata una virtù assopita e sebbene un virus ci abbia dimostrato quanto siamo fragili, minimi, aggredibili, malgrado un microrganismo piccolissimo ci abbia ridotti a più di quanto già eravamo “disperati del benessere”, nei fatti non riusciamo a fare ammenda ed a diventare consapevoli della necessità vera di cambiare. Del resto è evidente che l’essere consapevoli degli errori, dei limiti, delle convinzioni superate e far seguire un serio ravvedimento che porti a qualche cambiamento, non è propriamente gratificante. Credo che senza resipiscenza non avremo nessun cambiamento in positivo. Del resto sono tanti quelli che aspettano ansiosi, di poter tornare ad un prima che non tornerà uguale o se tornerà lo sarà solo per poco. Le cose non saranno mai più come prima, e questo sono in parecchi a dirlo, mentre io credo, a qualcosa di ben più grave – le cose saranno come prima, ma solo in superficie, sarà come un bel trucco che servirà a nascondere le rughe, ma non fermerà gli effetti del tempo. Per questo motivo compulserei l’idea di convocare un grande Consiglio di Resipiscenza, correndo il rischio che qualcuno, carpendo questa idea, possa trasformarlo nell’ennesima banalità priva di contenuti.

Del resto la sintesi di questa folle epoca è egregiamente riassunta nella frase Cult dell’anno 2020 “CE LA FAREMO!” Espressione che meglio di tutte mette in risalto l’atteggiamento di questo moderno positivismo che, lungi dal voler tentare di nutrire qualche ragionevole dubbio (Dubium sapientiae initium), condivide tacitamente con la teologia, la convinzione che si debba essere positivi. La teologia dice: alla fine ci sarà giustizia; il positivismo dice: le cose andranno sempre meglio. Ed infatti, veleggiando su questo positivismo siamo giunti fino a dove siamo ora …
“CE LA FAREMO!” non è sperare, non è spronare, non è ottimismo, ma è il modo giusto per rinchiudersi dentro la “gabbia” weberiana.
Ma io non voglio andare in mezzo ai matti” protestò Alice. “Oh, non puoi evitarlo” disse il gatto “Qui tutti sono matti. Io sono matto. Tu sei matta».
Il vero problema non è la pazzia – anzi – ma il categorico rifiuto di ammettere gli errori che sono diventati veramente troppi e ripetuti. A questo si aggiunge un senso di distrazione, un sorta di sonno mentale sostenuto dalla ancor comoda rassegnazione di alcune categorie sociali. Pochi intendono rompere le righe, pochissimi sono coloro che vogliono uscire dai confortevoli ranghi, in cui restano protetti per esprimersi con un vigore nuovo, puro, vibrante e disinteressato.

Ingabbiati tra la nostalgia dei tempi passati e l’illusione di riuscire a stare meglio nel futuro, quasi nessuno tra chi, forse, qualcosa in più potrebbe – seppure rischiando – proporre. Penso, ad esempio, alla necessità di una formazione dell’uomo capace di innescare con lucidità di spirito, processi aggregativi adatti a dare vita ad una rivoluzione pacifica, ad una trasformazione autentica, forte e mai violenta, capace di ridestare le coscienze tristi, di toccare sul serio e con vigore le questioni pratiche (economia – politica – ambiente – salute – istruzione ecc), capace di parlare a “cuore aperto” ed uscire dagli schemi stereotipatidelle categorie di appartenenza, usando un vocabolario nuovo fatto di parole atte a rinforzare un punto di vista affrancato, per ritrovare una libertà interiore ormai obnubilata, deviata.
Ci sono stati e ci sono a vari livelli, diversi interventi di rilancio e molteplici azioni di sostegno, ma chi guarda con occhi veramente nuovi e soprattutto con progetti modernamente veri, agli anonimi, agli inascoltati, ai lavoratori, alle Partite IVA, ai piccoli commercianti, agli artigiani ed a quegli imprenditori onesti travolti, asfaltati, divorati dalla crisi? Chi guarda ai giovani? Nessuno! Di grandi appuntamenti ben reclamizzati se ne trovano a iosa, ma scarseggiano le riflessioni vere e profonde sulle inefficienze e le irrazionalità strutturali di questo capitalismo nostrano. Il problema vero è che pochi hanno le capacità, ma, soprattutto, la voglia autentica di sedersi a pensare, di confrontarsi per creare una base di pensiero e di un agire coraggioso che, con rispetto, crei discontinuità con il passato, a scapito delle rinunce da imporre ai privilegiati. Alla fine la domanda cambia e diventa un’altra: a chi conviene? La risposta è nella speranza, che resta il solo rischio che si è disposti a correre.

(*) Consulente aziendale

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