La narrazione a senso unico
Pubblichiamo l’intervento di Francesco Pinto apparso sull’edizione odierna de “Il Mattino“
“Ho votato per De Luca, sono tifoso del Napoli e laureato in filosofia. Chi pensa che le poche righe che seguiranno siano scritte da un sofista imbroglione che difende, per ragioni politiche, il lato oscuro dell’Italia può fermarsi qui. Bene; se qualcuno è rimasto provo a fare qualche riflessione sul racconto che in queste ultime settimane si sta costruendo sulla nostra regione. Parlo di racconto e non di informazione perché è l’unica cosa che conta. Percepiamo il mondo attraverso le storie e non attraverso i fatti o l’esperienza. Accade da molto tempo almeno dalla nascita dei giornali e del cinema per dirlo in maniera grossolana. È questo il mondo in cui viviamo ed è inutile stracciarsi le vesti.
Se non siete d’accordo potete fermarvi di nuovo e andare alla ricerca della realtà. Buona fortuna. È rimasto qualcuno? In caso affermativo vado al dunque con due passi indietro.
Il primo finisce nel 1951 nell’esperimento di Hasch, un sociologo polacco dello Swarthmore College. Il professore dimostrò che è possibile convincere un soggetto, che si trova isolato in un gruppo, anche di affermazioni palesemente false.
Il secondo nel marzo di questo anno e al primo lockdown. Quale è stata la narrazione di quei mesi? Anche qui la faccio breve: solidarietà alla Lombardia (e al Nord) operosa e civile e stupore per quanto stava avvenendo a Napoli (e al Sud). Tutto questo con un certo disagio perché non corrispondeva ai racconti fatti fino ad allora. Venivano da lontano queste storie: nei media da almeno trenta anni. Se qualcuno ha tempo consiglio la lettura de La parte cattiva dell’Italia dove, ad esempio, si dimostra, con tanto di tabelle, che in questo arco di tempo il Sud nel TG1 era stato raccontato praticamente con solo quattro items. I primi tre era la criminalità, la corruzione, la malasanità; il quarto il clima perché siamo sempre o’ paese d’o sole. Sempre nello stesso periodo Il corriere della sera e Repubblica dedicano più della metà dei loro articoli su questo tema alla criminalità. Il professor Cristante, coordinatore ed autore della ricerca, è veneziano, lo dico quasi di sfuggita.
Chi scrive storie lo sa benissimo: il problema non sta nei personaggi, ma come vengono bilanciati e quante pagine hanno nel copione. Un esempio? Nel TG1 Si parla anche di malasanità al nord, ma quasi sempre, e nella stessa settimana, c’è la scena di una best pratice. Per raccontare il Cotugno c’è voluto Sky Usa e il New York Time.
E veniamo ad oggi: la pandemia riparte e i numeri al Sud sono diversi. È la straordinaria occasione per riportare tutto nello schema narrativo che funziona e a cui si crede perché è semplice e lineare come i film degli anni trenta. E come si straccia quel pezzo di copione che proprio non ci stava? Nella maniera più semplice del mondo: sono imbroglioni per natura come lo scorpione nelle favole di Esopo e dunque non sono necessarie prove e motivazioni.
Il problema è che, come nell’esperimento di Asch, incominciamo a crederci anche noi come dimostra il cambiamento radicale di clima all’interno dei social. E chi non è convinto di questo si comporta secondo la magnifica analisi della Neuman ne La spirale del silenzio: tace.
Il video postato della morte del povero signore al Cardarelli vale più dei numeri dei posti letto occupati in rianimazione. Le storie con un cattivo, un buono e un eroe sono potenti soprattutto per scatenare emozioni, cari ragazzi.
Quando questa emergenza sarà finita (ma è meglio prima) sarà necessario iniziare ad affrontare il tema gigantesco di come viene raccontato il Sud. Senza nascondere i suoi lati oscuri (fuori da qualsiasi ambiguità: Gomorra di Saviano è stato un libro straordinario e necessario), ma come una sceneggiatura moderna dove i personaggi hanno più lati e le storie sono complesse. Ho i miei dubbi che questo tentativo possa avere successo perché il sud pagherà la sua differenza intellettuale che è fatta di una straordinaria creatività individuale e di un’altrettanta straordinaria povertà di industria culturale (case editrici, giornali, televisioni, blogger ecc.) e mi accontenterei di una sorta di trattativa tra il vecchio e il nuovo. Di una cosa sono però convinto: le battaglie perdute sono quelle che non si combattono.