A Sorrento se muore il turismo…
“Quante volte, riferito alla penisola sorrentina, abbiamo sentito questo vecchio adagio: “si a Surriento fenesce ‘o turismo ce murimmo ‘e famme”. Personalmente ho sempre sentito la versione con il “se” e mai quella con il “quando” segno che a questa eventualità nessuno ha mai creduto nel concreto, confidando nella irreversibilità del sistema e delle condizioni politiche e sociali. Ora invece vediamo spuntare una minaccia del tutto imprevista, la grande epidemia mondiale che, più insidiosa di una guerra, ha chiuso tutto, ha paralizzato i movimenti delle persone. E così a Sorrento si è avuto proprio il risultato del vecchio adagio.
A Sorrento, così come in tutta la penisola, è venuto a mancare in pochi giorni la materia prima della sua industria e quindi la linfa vitale della sua unica economia. Se l’industria del Nord si agita e pretende di aprire le fabbriche per non perdere prima il lavoro e poi i clienti. noi abbiamo perso prima i clienti e poi perderemo il lavoro e non potremo riaverli finché il virus non sparirà, non solo dall’Italia ma almeno dall’Europa. La nostra tragedia, perché per la nostra economia sarà una tragedia, risiede nel fatto che in penisola sorrentina non vi è alternativa al modello di sviluppo adottato dal dopoguerra in poi, si è puntato da un lato sui facili guadagni dell’urbanizzazione mediante l’esasperato consumo di suolo, annullando la possibilità anche futura di qualsiasi riconversione agricola e dall’altro sull’incremento della ricettività per il turismo, condannandoci al “turismo di massa”.
Ora si capisce bene che quando il turismo è di massa per sua stessa definizione è incompatibile con una epidemia che impedisce proprio l’ammassarsi di persone. Il turismo è movimento, è circolazione delle persone. L’epidemia impone invece l’esatto contrario, l’isolamento; due necessità inconciliabili nella situazione attuale. Ecco perché ogni tentativo per far convivere queste opposte necessità è velleitario in questo momento. Tutto è appeso alla speranza della scomparsa del virus.
E allora che fare? La prima cosa da fare, non sembri banale, è pensare a ciò che abbiamo fatto; riconoscere e riflettere sugli errori commessi per correggerli dove è possibile ed evitarli nel futuro. Trarre gli insegnamenti che ci offre questa epidemia. Quindi, sul piano individuale, oltre a modificare le nostre abitudini (in senso reale e non sia anche questo un luogo comune) dovremo assumere una rinnovata consapevolezza nei confronti dei tanti valori che abbiamo barattato con un finto benessere in questi ultimi decenni: il senso civico dei beni comuni, il rispetto per l’ambiente, l’abiura del consumismo.
Sul piano sociale è necessario anteporre alla logica del profitto le esigenze dei cittadini, clienti o consumatori che siano. La vera rivoluzione sarà necessaria sul piano politico dove occorre abbandonare definitivamente gli interessi personali ed elettorali per dedicarsi ad un’amministrazione intelligente, onesta e lungimirante proiettata nel futuro. Se a ciò l’attuale classe dirigente non sarà capace occorre sostituirla al più presto. Tutto questo se vogliamo dare un senso all’esperienza di questi giorni terribili dove tanti italiani ci hanno purtroppo rimesso la pelle”.