L’Italia sul baratro/Tra vecchio e nuovo regime le incognite sul nostro futuro
di Raffaele Lauro
Il diario politico, “L’Italia sul baratro”, che si conclude con la pagina odierna, ha cercato di documentare e commentare, mantenendo, per quanto possibile, un atteggiamento non fazioso, ma di esclusiva difesa dei valori ideali della nostra democrazia repubblicana, fondata sulla Carta Costituzionale del 1948:
– la crisi etico-politica dell’intera classe dirigente nazionale, testimoniata da una veemente, quanto degradata, campagna elettorale, in un clima di rabbia e di odio sociale, nonché da promesse irrealizzabili e ingannevoli per catturare il consenso degli elettori e da un impiego programmato dei Social e del web, finalizzato alla demonizzazione e alla delegittimazione, anche personale, degli avversari politici;
– i paralizzanti risultati delle elezioni, indotti da una legge elettorale ibrida, che non hanno partorito un vincitore certo (di una coalizione o di un singolo partito), tale da poter contare su una organica maggioranza parlamentare, ma due vincitori “apparenti”, il Movimento Cinque Stelle e la Lega, che si erano presentati agli elettori su fronti opposti e con proposte programmatiche alternative;
– la spartizione dei vertici del Parlamento, come anticipo del patto di governo, senza alcun riguardo per una parte dell’opposizione;
– la gestione post elettorale, da parte del Capo dello Stato, per la formazione di un nuovo governo, la più lunga e tormentata della storia della Repubblica, circa tre mesi, che si è trasformata nella fase conclusiva da crisi politica del sistema partitico in una crisi istituzionale, per ora rientrata, coinvolgendo anche il supremo garante delle Istituzioni;
– la formazione di un governo bipartitico, M5S e Lega, non votato dagli elettori, basato su un “Contratto per il Governo del Cambiamento”, convenuto tra le due parti come accordo privato e presieduto da una personalità di matrice accademica, non eletta, estranea al mondo politico, affiancata e “sorvegliata” dai due leader politici, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in qualità di vice presidenti. Cioè un presidente del Consiglio inteso come esecutore del contratto, più che artefice del programma di governo e garante dell’unità di indirizzo politico-amministrativo dell’esecutivo (l’intervento piatto, quasi illustrativo, alle Camere, per ottenere la fiducia, da parte del premier Giuseppe Conte, ne è stato la conferma; come inconsistente, nella stessa occasione, nonostante le dotte citazioni, è risultato il suo tentativo di dare sostanza culturale e ideale al neo-populismo e al sovranismo);
– la ripartizione dei dicasteri e quella ancora in corso del sottogoverno (vice ministri, sottosegretari, capi di gabinetto, uffici di diretta collaborazione e nomine strategiche), secondo logiche di appartenenza, persino di fedeltà personale, con qualche rara eccezione tra i ministri cosiddetti tecnici, che hanno fatto impallidire lo storico “Manuale Cencelli” della Prima Repubblica, con il rischio di fare la fine di Matteo Renzi (lo scontro per la delega delle Telecomunicazioni, strumento di condizionamento e di ricatto politico nei confronti di Silvio Berlusconi, ne costituisce una concreta prova);
– l’assenza o la scarsa incisività politica dei partiti e partitini di opposizione, in primis del Partito Democratico e di Forza Italia, votati di questo passo alla dissoluzione, nonostante i progetti di rinnovamento della nomenclatura democratica e di Silvio Berlusconi;
– le turbolenze già manifestare sui mercati finanziari (Borsa in calo e spread in crescita), che, dopo le prime valutazioni negative sulla instabilità politica, con il rischio di nuove elezioni, sono ora in agguato permanente, rispetto ai primi provvedimenti di spesa, che il governo potrebbe varare in attuazione delle principali riforme del programma (reddito di cittadinanza, abolizione o modifica della legge Fornero, flat tax);
– il battesimo internazionale del premier, al G7 in Canada, e quello operativo dei due ministri leader, nei rispettivi ambiti di competenza (lavoro-welfare-sviluppo e sicurezza-immigrazione) attuato non per atti di governo, ma con la non dismessa pratica quotidiana, al limite dell’ossessione, dei tweet e dei post;
– le amministrative parziali del 10 giugno, che continuano a sottolineare la crescita della Lega di Salvini, con al seguito i residuati del centrodestra e la fine dello slancio del M5S.
Pur rifuggendo dalle posizioni ipercritiche, talora astiose, derisorie e supponenti, assunte dalla stampa internazionale e da una parte rilevante di quella nazionale, mirate a sottolineare, in dettaglio, la superficialità, le gaffe, le giravolte, l’incompetenza e le contraddizioni dei nostri nuovi governanti, non si può negare che il titolo di questo diario, a conclusione di un percorso durato circa sei mesi, non sia, allo stato, modificabile in positivo. Nonostante la retorica del cambiamento e l’enfasi posta sulla nascita della Terza Repubblica!
LA POLITICA ESTERA: L’ITALIA, CAVALLO DI TROIA DI PUTIN E DI TRUMP?
Pur avendo formalmente confermato, anche in Parlamento, l’appartenenza settantennale dell’Italia alla NATO e all’Unione Europea, con l’aspirazione (velleitaria) a volerne modificare i trattati, il continuo riferimento del premier e dei ministri all’abolizione delle sanzioni alla Russia, giudicata dannosa per i nostri rapporti commerciali con il Cremlino, subito benedetta da Vladimir Putin, appare il preludio di un cambiamento di rotta contro l’alleanza atlantica e di una Italexit, sospetto rafforzato anche dalla intempestiva e ingenua richiesta di ammissione della Russia al G7 (questa sconfessata persino dallo stesso Putin). In una fase di guerra aperta sui dazi doganali, scatenata dal presidente USA, Donald Trump, nei confronti della Cina e dell’Unione Europea, scelte di campo contraddittorie possono diventare pericolose e un segno di provinciale improvvisazione. Trump e Putin sono d’accordo, tra loro, soltanto nel volersi spartire le spoglie, politiche ed economiche, del vecchio continente. Non si illuda il nostro primo ministro delle benevoli pacche sulle spalle dell’elefante americano, dei complimenti (che bravo ragazzo!) e degli inviti alla Casa Bianca. Tenga bene a mente come Trump, con un tweet, dall’aereo, ha distrutto i risultati, pur modesti, sul commercio e i dazi americani, sull’acciaio e l’alluminio, del G7, tenuto in Canada, e la reputazione internazionale del primo ministro canadese Justin Trudeau, qualificato, senza mezzi termini, come un traditore, un bugiardo e un debole. Attenzione a non far diventare l’Italia il cavallo di Troia anti europeo delle due superpotenze!
LA POLITICA INTERNA: l’IMMIGRAZIONE, BANCOMAT ELETTORALE DI SALVINI
Sulla politica interna, riguardante, in particolare, la sicurezza dei cittadini (la legittima difesa) e la gestione dell’immigrazione (i porti chiusi), le provocazioni e le prese di posizioni brutali del leader leghista non si fermeranno, a costo di provocare crescenti tensioni diplomatiche, ritorsioni e un rischioso isolamento del nostro paese, a livello europeo e nella comunità internazionale. Non intende limitarsi, quindi, a continuare la politica dei risultati concreti del suo predecessore al Viminale, Marco Minniti, ma Salvini ambisce a fare scoppiare un caso internazionale, per oggi rinviato per la disponibilità della Spagna ad accogliere la nave “Acquarius” con i 629 migranti, per mettere con le spalle al muro i paesi dell’Unione Europea, refrattari ad assumersi responsabilità dirette sulla questione immigrazione, sia finanziarie che in termini di accoglienza. Salvini possiede un fiuto politico straordinario, ha colto la sensibilità degli italiani sul tema e ha capito che spingendo sull’acceleratore raccoglierà, in ogni caso, da vincente o meno, un consenso crescente che gli consentirà, nell’immediato futuro, di liquidare Berlusconi e lo stesso Di Maio sempre più in affanno nel rincorrerlo. L’immigrazione diventerà il bancomat elettorale di Salvini, nonché l’estrema unzione per il PD.
LA POLITICA ECONOMICA: LA TIRANNIA DEI CONTI E IL MANIFESTO TRIA
L’intervista-manifesto del nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, costituisce una diplomatica sconfessione di tutte le fantasie riformatrici del trio Conte-Di Maio-Salvini, cioè dei pilastri, espressi o sotterranei, del loro contratto-programma: la rinunzia all’uscita dall’euro e il rinvio del reddito di cittadinanza, della flat fax e dell’abolizione della Legge Fornero. La flessibilità concessa dalla commissione europea riuscirà e stento a consentire una manovra contenuta di assestamento di bilancio e a superare le clausole di salvaguardia dell’IVA e delle accise. Questa presa di posizione del ministro costringerà i due vice ministri a buttarsi sulle riforme propagandistiche (usufrutto, pensioni d’oro) o su quelle a costo zero (immigrazioni, legittima difesa). A meno che non decideranno di sostituire il ministro Tria, costringendolo alle dimissioni. La qual cosa potrebbe provocare una reazione a catena con la caduta del governo.
L’Italia (duole riconoscerlo!) rimane purtroppo sul baratro, anche per il futuro, un futuro pieno di timori e denso di incognite!