L’Italia sul Baratro/Elezioni: le sconfitte reali e le vittorie apparenti
di Raffaele Lauro
Gli elettori hanno votato “contro” non “pro”, condizionati da sentimenti negativi: la rabbia, il rancore, la paura e l’odio sociale. L’epilogo infelice della prima repubblica e il patetico declino del berlusconismo.
La disfatta di Sedan (1 settembre 1870) segnò la fine della guerra franco-prussiana e, con la cattura dell’Imperatore dei Francesi, Napoleone III, anche quella del Secondo Impero, aprendo così la strada, dopo un breve periodo di turbolenze rivoluzionarie (La Comune di Parigi), alla Troisième Republique, la Terza Repubblica. Un radicale cambiamento istituzionale e di sistema politico. I settant’anni del terzo regime repubblicano di Francia (1871-1940) fu caratterizzato da governi precari, sostenuti da maggioranze non autosufficienti: un’instabilità politica permanente che favorì scandali finanziari, spinte nazionalistiche, sbocchi imperialistici e persecuzione delle minoranze (antisemitismo).
L’aver evocato, da parte di Luigi Di Maio, in maniera enfatica, in base ai risultati del voto, favorevoli ai cinque stelle nel Mezzogiorno, l’inizio della cosiddetta terza repubblica italiana (“La Terza Repubblica dei cittadini italiani”), intesa come metamorfosi del regime politico, rispetto al precedente, appare, allo stato, una forzatura storica, in quanto soltanto gli eventi futuri testimonieranno se questo radicale cambiamento sarà realmente intervenuto. Non si può dubitare, tuttavia, che il corpo elettorale abbia sepolto, definitivamente, la cosiddetta seconda repubblica, con la sconfitta dei partiti e dei cosiddetti leader che l’hanno governata, alternandosi alla guida del paese, per più di un ventennio (1994-2018): il Partito Democratico e Forza Italia, i due poli intorno ai quali sono state costruite le alleanze elettorali e le maggioranze di governo. Nel centro sinistra: i governi Prodi, i governi D’Alema e, nell’ultima legislatura, i governi Letta, Renzi e Gentiloni. Nel centro destra i quattro governi Berlusconi, intervallati dai governi tecnici: Dini e Monti.
Le urne hanno partorito, quindi, delle sconfitte reali (Renzi, PD e alleati, Liberi e Uguali, a sinistra; Berlusconi, Forza Italia e alleati di centro, a destra) e delle vittorie apparenti (Di Maio e il Movimento Cinque Stelle; Salvini e la Lega). Gli elettori hanno votato “contro” e non “pro”, condizionati da sentimenti negativi: la rabbia, il rancore, la paura e l’odio sociale. L’epilogo infelice della prima repubblica e il patetico declino del berlusconismo.
LE SCONFITTE REALI
Anche se la principale sconfitta elettorale reca le sembianze di Matteo Renzi, il quale ha completato il suo arrogante processo di autodistruzione politica, affermando, a poche ore dall’apertura delle urne, che persino in caso di netta sconfitta sarebbe rimasto, comunque, al suo posto fino al 2021, spingendo così gli ultimi indecisi, dentro e fuori il suo partito, a votargli contro, in realtà, ad uscirne “asfaltata”, risulta l’intera sinistra italiana, non solo il PD di Renzi, ridimensionata massicciamente nel consenso e nella rappresentanza parlamentare, nonché mortificata, per l’immediato futuro, nell’aspirazione a tornare al governo del paese. Due milioni di voti ex-democratici sono stati travasati nel Movimento 5S, lasciando a bocca asciutta gli scissionisti di Liberi e Uguali, la cui dichiarata missione era quella di intercettare e di recuperare a sinistra i voti in uscita dal PD. Quindi, oltre a Renzi, gli sconfitti sono i Bersani, i D’Alema, i Grasso e le Boldrini. Ed è ragionevole, inoltre, supporre che, anche senza la scissione, la sinistra italiana, nel suo insieme, in linea con il generale ridimensionamento, elettorale e politico, dei partiti socialisti in Europa, non sarebbe scampata alla batosta elettorale del 4 marzo.
La sinistra italiana, pur frammentata in tanti rivoli, dovrebbe riflettere, quindi, al più presto e nel suo insieme, sulle ragioni di fondo di una sconfitta che viene da lontano. E su quale ruolo una sinistra democratica, di impronta europea e finalmente libera dai residui post comunisti, possa continuare a fare politica di fronte alla marea montante del sovranismo, del nazionalismo, del populismo e del razzismo, a difesa della costituzione e delle libertà democratiche e dinnanzi ai devastanti effetti sociali prodotti dalla globalizzazione e dalla recessione economica a difesa dei poveri, dei meno abbienti, dei senza lavoro, dei giovani e degli emarginati sociali. I tentennamenti di Renzi anche sulle dimissioni da segretario del PD, annunziate e non date subito e la ricerca, al di fuori del recinto delle proprie dirette responsabilità, delle cause della sconfitta, la dice lunga su una concezione padronale del partito, mutuata, in questi anni, dal berlusconismo e sui tempi lunghi di un chiarimento non più rinviabile per evitare un’ulteriore emarginazione della sinistra dai futuri equilibri istituzionali, politici e parlamentari. Al contrario sembra prevalere l’antica sindrome dell’Aventino: rifugiarsi non sul colle, ma nell’opposizione parlamentare, rifiutando qualsiasi confronto con la nuova realtà.
La seconda sconfitta reale del 4 marzo 2018 riguarda Silvio Berlusconi e Forza Italia. Smacco ancor più significativo ed emblematico di quello di Renzi, del PD e della sinistra, in quanto fu proprio la discesa in campo, dalla Lombardia a Roma, dell’imprenditore, edile e televisivo:
– ad inaugurare e a caratterizzare l’avvio della cosiddetta seconda repubblica, nata nel 1994 e defunta nel 2018, durata più del ventennio fascista;
– a creare un partito-azienda di impronta padronale;
– a delegittimare, sui propri canali televisivi, l’eredità dei partiti della prima repubblica;
– a demonizzare gli avversari di sinistra;
– a introdurre un nuovo linguaggio della politica, attraversa i media;
– ad accentuare il leaderismo personale nel sistema politico, fagocitando tutti gli eredi da lui designati;
– ad irretire gli elettori moderati, con programmi elettorali e di governo (i contratti con gli italiani!), prodighi di rivoluzioni liberali, di piena occupazione, di sviluppo crescente, di condoni e di riforme fiscali, mai realizzati.
Saranno gli storici a valutare quali vantaggi (si fa per dire!) e quali danni il “berlusconismo dei sogni e delle promesse” abbia arrecato alla nostra malconcia democrazia. Queste elezioni segnano, comunque, l’epilogo infelice della cosiddetta seconda repubblica, nonché il patetico e definitivo declino del berlusconismo, come metodologia di conquista e di gestione del potere, sia nella versione originaria che in quella “succedanea” del renzismo, entrambe incapaci di cogliere i sentimenti di rivolta serpeggianti nel profondo della comunità nazionale.
Il Berlusconi “resucidato” è stato percepito dalla maggioranza dell’elettorato moderato come un film di repertorio e una pessima imitazione di se stesso, con la stessa litania di promesse del passato, divenendo persino grottesco nello scontro televisivo con Enrico Mentana. Il tentativo, infine, di ridicolizzare Luigi Di Maio, come un ragazzotto, senza arte né parte, si è tradotto, nel confronto tra vecchio/nuovo, in un formidabile assist elettorale per i cinque stelle e per il loro capo politico.
LE VITTORIE APPARENTI
I voti ottenuti e i seggi parlamentari conseguiti certificano, senza alcuna ombra di dubbio, che i vincitori “numerici” delle elezioni politiche 2018 sono stati Luigi Di Maio e il M5S da un lato e, dall’altro, Matteo Salvini e la Lega. I dioscuri della “vittoria mutilata” del 4 marzo 2018. Se dalle percentuali si passa ad esaminare i “sentimenti” della gente comune che hanno prodotto questi innegabili risultati, si scopre che trattasi di attrazioni tutte negative. Le grandi vittorie elettorali, nelle democrazie occidentali, sono legate prevalentemente alla capacità dei leader di proporre cambiamenti radicali e programmi credibili in grado di risolvere problemi e di seminare speranze e prospettive positive per il futuro, specie per le nuove generazioni. Niente di tutto questo! Di programmi credibili, neanche a parlane.
Di Maio e i pentastellati hanno puntato principalmente sulla rabbia montante e sul rancore nei confronti del “sistema” e del ceto politico tradizionale, additatolo come il responsabile unico del malgoverno, della corruzione, dell’incompetenza, delle ruberie, della collusione con la criminalità organizzata, dell’usura, del gioco d’azzardo, della disoccupazione, specie giovanile e della povertà. Salvini e la Lega hanno puntato principalmente sulla paura della criminalità comune, nazionale e di importazione (insicurezza fisica delle persone, specie degli anziani, per le strade e nelle proprie case; angoscia dei negozianti, minacciati da furti e rapine; i luoghi degradati dello spaccio degli stupefacenti e di efferati delitti connessi alla immigrazione clandestina) e sull’odio sociale verso le minoranze (xenofobia e razzismo).
L’intuizione di Di Maio di non lasciarsi confondere mai con i responsabili del vecchio regime, neppure attraverso il confronto diretto, e quella di Salvini di trasformare la Lega in partito nazionale, rintuzzando quotidianamente ogni uscita di Berlusconi, hanno trovato terreno fertile in un elettorato deciso a votare “contro” i governanti in scadenza, colpevoli di tutti i loro mali e “contro” l’ipotesi che gli stessi (Renzi e Berlusconi, il PD e Renzi) potessero “inciuciare”, dopo le elezioni, con la benedizione dei poteri forti, dei circoli finanziari internazionali e delle cancellerie europee, per conservare il loro dominio e per continuare a malgovernare il paese, presentandosi magari come i salvatori della patria, dell’euro e della democrazia, dalle orde barbariche dei “marziani a cinque stelle” e dei “defensores civitatis neo-leghisti”. La conferma di questa analisi viene anche dalle due aree che costituiscono il loro “granaio” elettorale: il bacino elettorale del Sud, delle Isole e della fascia adriatica, per il M5S; il bacino elettorale del Nord Ovest, del Nord Est e delle propaggini emiliane, per la Lega.
Sapranno bene investire i loro successi elettorali, non avendo conseguito un’autonoma maggioranza parlamentare per governare, né da soli (M5S), né in coalizione (Lega), ed essendo incompatibili a governare insieme, per loro espressa dichiarazione, nonostante l’affinità antieuropeista? Riusciranno a rispondere, con i fatti, alla “pancia” del Sud e del Nord del paese, che hanno così bene sollecitato e intercettato? Saranno in grado due vittorie “antisistema” di trasformare il vecchio regime politico in uno nuovo, corrispondendo alle attese di un paese, deluso e amareggiato dalla classe politica, nazionale e locale, finora governante?
Si pentiranno i loro elettori di essersi affidati, forse per l’ultima volta, ad una rappresentanza istituzionale, ancorché antisistema, piuttosto che esplodere in un’insurrezione popolare, brandendo i forconi? Il prossimo futuro fornirà le risposte a questi quesiti, sussistendo, tuttavia, il legittimo dubbio che queste vittorie potranno rivelarsi, a breve, solo apparenti e che gli apprendisti stregoni dei sentimenti negativi rischieranno di essere sconfessati dai loro sostenitori delusi.