L’Italia sul Baratro/Bilancio: una campagna elettorale da dimenticare
In mezzo ad un cumulo di macerie, prodotto dalla dissennatezza del ceto politico e ai marosi da affrontare, da lunedì 5 marzo il nostro paese potrà contare su due “scialuppe di salvataggio”, di solida fattura politica: Mattarella e Gentiloni.
Nel gennaio e nel giugno 1991, Rusconi pubblicò due successive edizioni (la prima andò immediatamente esaurita) di una raccolta di saggi politici, che avevo pubblicato con una certa continuità nell’anno precedente, su “Il Mattino” e su “Il Popolo”, il quotidiano ufficiale della Democrazia Cristiana, con un titolo accattivante, scelto personalmente dall’indimenticabile Edilio Rusconi (Raffaele Lauro, La DC verso il Duemila, Rusconi 1991, pagg. 254).
Negli scritti, infatti, analizzavo quali fossero le idee e le strategie con le quali i vertici della DC intendevano affrontare la fine del secondo millennio e l’avvento del terzo, caratterizzati da vorticose mutazioni politiche e sociali. In particolare, come il mondo cattolico si stava preparando alla sfida da lanciare contro i “mostri” del XX secolo: il pensiero ideologico, coincidente con la degenerazione totalitaria del marxismo-leninismo; il pensiero economico, privilegiante il profitto fine a se stesso, con il connesso materialismo consumistico e, infine, il pensiero scientifico, sempre più dissociato dall’etica.
Partendo dall’eredità spirituale e statuale di Alcide De Gasperi e di Aldo Moro, fondata sull’unità politica dei cattolici democratici, cercai di individuare le nuove idee e i fermenti più profondi, scaturiti anche dal magistero pontificio di Giovanni Paolo II (in particolare dall’Enciclica “Centesimus annus”, destinata, appunto, alla “preparazione degli uomini che entreranno nel terzo millennio”). Idee e fermenti che, tuttavia, necessitavano di essere trasfusi in iniziative politiche concrete e in programmi persuasivi, pena la perdita, da parte della DC, di una sfida epocale.
Per quanto riguardava, poi, lo stato di salute di tutti i partiti democratici e il loro insufficiente impegno nel colmare il divario che si stava creando tra le istituzioni democratiche e i cittadini, con una crescente disaffezione verso la politica, sottolineavo: “In Italia, è possibile identificare almeno tre aspetti della crisi del sistema: il processo di involuzione dei partiti, il dilagare della questione morale e la questione istituzionale, con la riforma della costituzione, mirata a rendere efficienti gli organismi rappresentativi della repubblica democratica”.
Da 1991 ad oggi, sono trascorsi ben 27 anni, con la fine della prima repubblica e l’aborto della cosiddetta seconda, nonché di tutti i tentativi di riforma costituzionale. I non risolti aspetti della crisi del sistema si sono incancreniti, cronicizzati, anche a causa di una sopraggiunta recessione economica, devastante, che ha lacerato il tessuto sociale e il senso di comunità nazionale, come è stato testimoniato dall’andamento di questa campagna elettorale 2018, tutta da dimenticare.
In mezzo ad un cumulo di macerie, prodotto dalla dissennatezza del ceto politico e ai marosi da affrontare, da lunedì 5 marzo, il nostro paese e le istituzioni, comunque, potranno contare su due “scialuppe di salvataggio”, di solida fattura politica: Sergio Mattarella e Paolo Gentiloni, il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio dei Ministri in carica. Ciò mi ha indotto a riflettere, in queste ore di attesa, come la migliore eredità dei valori ideali della DC, condivisi un tempo con gli altri partiti democratici (il rispetto delle Istituzioni e degli avversari politici, la politica intesa come servizio, la capacità di mediazione tra interessi contrapposti, l’onestà intellettuale, il ripudio del leaderismo fine a se stesso, il rifiuto della personalizzazione del confronto politico, il ragionamento e non le urla, l’attenzione costante alle fasce più deboli della società) non sia andata del tutto dispersa, insieme con l’unità politica dei cattolici democratici. Nessuna operazione nostalgica, nessun reducismo, nessuna restaurazione, piuttosto una constatazione. Se le scelte per tentare di uscire dal tunnel, dove i cosiddetti leader politici di oggi ci hanno cacciato, stanno nelle mani degli “eredi” ultimi di un grande partito democratico e popolare, di ispirazione cristiana, qualcosa vorrà pure significare.
Per comprendere la delicatezza e la complessità del ruolo istituzionale che il Capo dello Stato, in quanto garante della Costituzione e arbitro degli equilibri politico-istituzionali, nonché responsabile degli assetti, governativi e parlamentari, post elettorali, sarà chiamato a svolgere, bisogna partire da alcune premesse, largamente condivise dagli osservatori politici non di parte:
– il PD potrebbe crollare al di sotto del 20% e, verosimilmente, non conquisterebbe, in nessuna delle due Camere, il più numeroso gruppo parlamentare (l’obiettivo minimo che Renzi si era prefissato, per ridurre il costo personale della sconfitta);
– il M5S di Di Maio, sia che superasse la soglia del 30% sia che restasse sotto, non godrebbe di una maggioranza di seggi tale da poter governare in autonomia;
– il centro destra, a causa anche dei palesi contrasti tra Berlusconi e il duo Salvini-Meloni, sia sulla futura guida del governo che su alcuni punti programmatici qualificanti, non supererebbe la soglia del 40% e sarebbe soggetto a spinte centrifughe, in relazione alle percentuali di voto conquistate dagli alleati in competizione tra loro;
– gli alleati minori delle coalizioni di centro sinistra e di centro destra, nonché la “riserva indiana” di Liberi e Uguali, non avrebbero alcuna possibilità di incidere, anche marginalmente, senza contravvenire agli impegni elettorali assunti;
– una pur prevedibile scomposizione delle alleanze elettorali, a favore del centro destra di Berlusconi (alleanza FI-PD) o del M5S (appoggio esterno ad un governo pentastellato di una parte del PD e di LeU), provocherebbe un terremoto politico, con conseguenze imprevedibili sulla credibilità residua dei partiti;
– allo stato, non sembrerebbe praticabile neppure un governo del Presidente, che si presentasse alle Camere a chiedere la fiducia, senza una maggioranza precostituita;
– il governo Gentiloni, che, da prassi, presenterà le dimissioni al Colle, subito dopo il risultato elettorale, e resterà in carica per il solo disbrigo degli affari correnti, non sarebbe in grado, in ogni caso, con un rinvio alle Camere, mantenendo la composizione attuale, di attrarre, oltre il recinto PD, il sostegno di Liberi e Uguali, di eventuali transfughi pentastellati o di moderati neo-responsabili, pur terrorizzati dal tornare a breve alle urne;
– a meno di clamorosi rovesciamenti di tendenza delle ultime ore, un governo organico o delle larghe intese (centro destra autonomo o FI e PD) sembra fuori dalla realtà, per cui qualunque soluzione di governo individuata non potrà che essere provvisoria, cioè di breve durata e molto debole.
Il quadro definitivo dei rapporti di forza presenti in Parlamento che si prospetterà al presidente della Repubblica, martedì prossimo, quindi, sarà ricco di incognite, di variabili e di trabocchetti, senza escludere sostegni promessi e poi rinnegati, pretestuosamente, nelle aule parlamentari, in un “cupio dissolvi”, che alimenterebbe le già prevedibili turbolenze sui mercati finanziari.
Quale potrà essere il metodo di lavoro adottato dal Capo dello Stato per cercare di sbrogliare una matassa così intricata e formare un governo qualsivoglia?
Lo ha illustrato, in un brillante, lucido quanto documentato articolo, il commentatore politico e inviato de “Il Fatto Quotidiano”, Fabrizio d’Esposito, il quale fa riferimento ad un dossier, che avrebbe fatto preparare, in dettaglio, Mattarella, sui governi “non organici” della prima repubblica. E, precisamente, al “governo delle convergenze parallele”; guidato da Amintore Fanfani (1960); al “governo balneare o di decantazione”, guidato da Giovanni Leone (1963) e al “governo della non sfiducia”, guidato da Giulio Andreotti (1976).
Le formule Fanfani e Andreotti, applicate al presente, prevederebbero, comunque, l’accordo tra almeno due poli, con esclusione del terzo. Mentre la formula Leone, la più realistica, si potrebbe definire di transizione o di scopo, con il dichiarato fine di andare a nuove elezioni in autunno e l’intesa di sostenere il governo per realizzare i pochi punti in programma, tra i quali una nuova riforma elettorale e una massiccia manovra finanziaria.
Secondo d’Esposito, “L’obiettivo del Capo dello Stato sarebbe quello di varare, comunque, un esecutivo, pur su basi fragili, per poi sperare di sbloccare l’impasse e di allargare la base della maggioranza.” Ipotesi, quest’ultima, che, allo stato, appare fragilissima.
Non resta che attendere questi ultimi due giorni, prima di conoscere il responso delle urne e i percorsi che saranno responsabilmente individuati per tentare di sfuggire ad un futuro, per il nostro paese, ancor più difficile, complicato e convulso del presente.