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“Giustizialisti” il libro di Ardita e Davigo presentato da Marco Travaglio

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Pubblichiamo la prefazione di Marco Travaglio al libro “Giustizialisti” dei Magistrati Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, una lettura per riflettere sui malesseri di una Giustizia ingabbiata dalla Politica per cui possiamo affermare che “la legge non è uguale per tutti”.

di Marco Travaglio*

giustizialistiVerso la fine della sua lunghissima e bellissima vita, Indro Montanelli mi commissionò un libro: «Marco, tu devi scrivere il Codice penale tradotto in italiano. Te lo chiedo perché sarei il tuo primo lettore. Ho una vecchia laurea in Giurisprudenza, presa ancora ai tempi del codice Zanardelli, ma non mi è mai servita a niente: io nei meandri, nei meccanismi e nei linguaggi del processo penale mi perdo. E vorrei capirci qualcosa, anche perché ormai tutto passa di lì: è impossibile distinguere la cronaca politica da quella giudiziaria». Ci ho provato diverse volte, a scrivere quel libro, ma né prima né dopo la morte di Montanelli ci sono riuscito: c’era sempre qualche argomento più attuale, più urgente che prendeva il sopravvento. Poi, per fortuna, senza che ci parlassimo, la stessa idea è venuta a Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, due magistrati valorosi e benemeriti. Non solo per le indagini e i processi che hanno condotto.

Ma anche e soprattutto per un’altra virtù, tanto rara quanto preziosa: quella di parlare e scrivere in italiano chiaro, diretto e comprensibile, al contrario di tanti loro colleghi che si esprimono nel sanscrito del giuridichese e impiegano un quarto d’ora solo per dire «buongiorno». Giustizialisti è proprio quel Codice penale (e anche di procedura penale) tradotto in italiano che sognava Montanelli e che io non sono riuscito a scrivere: un libro semplice e stuzzicante, provocatorio al punto giusto, che spiega a tutti i non addetti ai lavori i perché e i percome della giustizia italiana allo sfascio. Una giustizia-paradosso che macina montagne di processi e partorisce solo topolini. Una giustizia-spaventapasseri che, vista da lontano, fa paura a tutti e, da vicino, fa ridere anche i polli. Una giustizia accusata di non funzionare per colpa dei giudici e invece programmata dagli altri poteri apposta per non funzionare. Parlando e scrivendo come mangiano, Ardita e Davigo illuminano questioni che a noi comuni mortali risultano inintelligibili e invece hanno tutte una spiegazione semplice, spesso banale. Fanno parlare i dati, le cifre, le norme, gli episodi di vita vissuta sviscerando le questioni di più bruciante attualità e lumeggiandone le cause e le possibili soluzioni. E, al contempo, smontano a uno a uno gli slogan, le dicerie, i luoghi comuni e le menzogne diffusi a piene mani dall’eterno Partito dell’Impunità che in Italia si ammanta ipocritamente di alti principi e sacri valori come il “garantismo”, la “presunzione di innocenza”, la “separazione dei poteri”, il “primato della politica”. Tutte imposture divenute il rifugio dei peggiori mascalzoni in guanti gialli.

Il Paese dell’impunità

Si sente sproloquiare di sovraffollamento delle carceri, poi si scopre che ogni anno entrano nelle patrie galere 90 mila persone e ne escono 80 mila, con una permanenza media in cella di appena 90 giorni. Si sente cianciare di abusi della custodia cautelare, poi si scopre che è quasi impossibile arrestare un incensurato, salvo che si metta a sparare (e spesso neppure questo basta): così si crea la figura unica al mondo dell’“incensurato a vita” che delinque serialmente. Si sente vaneggiare di colletti bianchi perseguitati dalla giustizia, poi si scopre che solo lo 0,3% dei detenuti in espiazione della pena appartengono alla categoria Vip, mentre tutti gli altri sono condannati per reati di strada, di solito infinitamente meno gravi e socialmente meno dannosi di quelli commessi dai ricchi e dai potenti (in controtendenza con Paesi portati a esempio di virtù dai nostri “garantisti”, come gli Stati Uniti, dove la giustizia non ha alcun riguardo per i ricchi e i potenti, come dimostrano i casi di Dominique Strauss-Kahn, Paris Hilton, Mel Gibson, Hugh Grant, Bernie Madoff e così via).
Anche fra i reati di strada, poi, le infinite scappatoie infilate nei Codici da una classe dirigente col culo sporco hanno creato un sistema demenziale che punisce più severamente condotte più lievi rispetto a quelle più pericolose: un condannato per rapina a mano armata trascorre in prigione una media di 635 giorni, contro i 761 di uno spacciatore di droga. In compenso, chi ha sottratto alla collettività decine o centinaia di milioni con una bancarotta fraudolenta non supera di solito i 190 giorni effettivi di detenzione (poi ottiene una pena alternativa, cioè torna in libertà con qualche ridicola restrizione), mentre chi è stato condannato per furto di soldi o beni di valore infinitamente più lievi, le pene alternative se le scorda e sconta in cella almeno 256 giorni. Il che basta e avanza per spiegare come mai l’Italia esporta cervelli in fuga e importa criminali da tutto il mondo.
Fantastico il racconto della riunione al ministero della Giustizia fra le delegazioni del governo italiano e di quello romeno per il rimpatrio di cittadini della Romania condannati per delitti commessi nel nostro Paese. Gli italiani rinfacciano ai romeni gli altissimi tassi di devianza criminale dei loro concittadini, i romeni rispondono che i due Paesi hanno più o meno la stessa percentuale di delinquenti, senonché quelli romeni preferiscono delinquere in Italia perché da loro chi sbaglia paga e da noi no. Si sente delirare sulle ragioni della lunghezza dei processi, salvo poi scoprire – nel libro di Ardita e Davigo – che siamo l’unico Paese al mondo con la prescrizione eterna, che continua a decorrere anche dopo due condanne in primo e secondo grado; con i tre gradi di giudizio automatici, sempre sotto forma di dibattimento (nei Paesi anglosassoni i processi come li conosciamo noi sono una rarissima eccezione, perché il rischio di condanna per i colpevoli è talmente alto da indurli quasi tutti a confessare e a patteggiare la pena, cosa che in Italia non fa nessuno poiché il colpevole ha tutto l’interesse a tirarla in lungo in attesa della prescrizione); con il divieto per il giudice d’Appello di aumentare la pena inflitta da quello di primo grado (il che rende i ricorsi – anche se infondati e pretestuosi, cioè destinati alla bocciatura – comodi, gratuiti, a rischio zero e a vantaggio mille). Per questo in Italia delinquere conviene: prevale, nel legislatore, l’interesse a una giustizia che non funzioni, cioè l’interesse opposto a quello dei cittadini perbene, che i reati non li commettono ma spesso li subiscono.

«Siamo giustizialisti»

Senza anticipare tutti i contenuti del libro, che si legge come un romanzo (ma noir, a tratti horror), trovo particolarmente preziosi alcuni capitoli. Quello sulla demenziale riforma Renzi sulla responsabilità (in)civile dei giudici, che ha reso la magistratura italiana ancor meno libera, indipendente dal potere (non solo politico, ma anche e soprattutto economico che, quando delinque e viene scoperto, ricatta la società con le conseguenze sociali, occupazionali e finanziarie dei processi). Quello sulle politiche dell’immigrazione, che tentano ridicolmente di affidare alla macchina già inceppata della nostra giustizia la soluzione delle conseguenze bibliche delle guerre e delle carestie e delle dittature di tutto il mondo: vedi il reato di clandestinità, che non ha mai prodotto una sola condanna davvero espiata e al contempo ha distrutto i processi agli scafisti e agli schiavisti (l’immigrato viene indagato appena sbarca e dunque non può essere sentito come testimone con l’obbligo di rispondere e di dire la verità su chi l’ha trasportato e sfruttato, magari gettando a mare decine o centinaia di esseri umani).
Quello sulle tante balle che si raccontano, nei Palazzi del potere, contro lo strumento principe per la scoperta della verità: le intercettazioni telefoniche ambientali, che sarebbero sempre troppe e troppo costose rispetto agli altri Paesi (che invece ne fanno molte di più e senza alcun controllo, vedi anche gli ultimissimi casi dello spionaggio mondiale targato Stati Uniti e svelati da Wikileaks).
Quello sulla voglia crescente di giustizia privata, sparando od organizzando “ronde” con l’appoggio di partiti politici che, nel frattempo, hanno fatto di tutto per distruggere la repressione e la prevenzione delle autorità pubbliche.
E, infine, quello sul rapporto fra magistratura e politica (anche con forti accenti autocritici sulla “correntocrazia” del Csm e sulle indulgenze della magistratura progressista sulle controriforme dei governi di centrosinistra), sempre gabellato dal Partito Trasversale dell’Impunità per uno “scontro” o per una “guerra”: anche qui, dati e cifre alla mano, gli autori dimostra- no come la magistratura italiana, pur con tutti i suoi difetti, riesca a fare pulizia al proprio interno molto più e meglio di quanto non facciano le classi politica e imprenditoriale.
Il titolo Giustizialisti è una risposta ironica alle accuse che pioveranno sul capo di Ardita e Davigo all’uscita del libro. Ma a me piace intenderlo anche come una rivendicazione orgogliosa del principio costituzionale secondo cui la legge è uguale per tutti, anzi meglio: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge» (articolo 3 della Costituzione). Se il “garantismo” – strappato abusivamente dalle nobili pagine di Cesare Beccaria – è diventato il gargarismo dei peggiori farabutti per negare e rifiutare pro domo sua i principi di eguaglianza, di legalità e di responsabilità, e se il suo contrario è il “giustizialismo” (che un tempo definiva i seguaci di Juan Domingo Perón in Argentina, senz’alcuna attinenza con i temi giudiziari), è venuto il momento di dichiarare con orgoglio da che parte stiamo: ebbene sì, siamo giustizialisti. E allora?

* Direttore de “Il Fatto Quotidiano”

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